Di Dario Pruiti
Quando ho scoperto che la webzine avrebbe trattato temi di precariato e sfruttamento, ho suggerito di esplorare il lavoro nel mondo della musica. L’intervista a Pasqualino Cacciola, uno dei miei più cari amici, musicista col quale collaboro da anni, è nata così. Anche se non è del tutto professionale rivelare un legame così personale con l’intervistato, è obbligatorio considerare che non è semplice indagare il rapporto intimo che intercorre tra un artista e il suo lavoro. Da una parte c’è l’espressione creativa incontaminata, poetica, libera.
Dall’altra il compromesso col mercato, coi contratti, col pane. Questa dicotomia, comune alle arti, impone un ragionamento su musica e potere, ovvero sul senso che questo Paese attribuisce alla produzione artistica intesa come professione. Ecco, quindi, che non poteva esserci un’intervista neutra, asettica, distante. La scelta è ricaduta su Pasqualino perchè lui, uomo di cultura vertiginosa e dall’impegno civile spiccato, polistrumentista che ha deciso di vivere di musica, custodisce un punto di vista prezioso. Partiamo da qui.
Pasqualino, quando hai capito che la nella tua vita volevi vivere di musica?
Il primo concerto l’ho fatto nel 92, a 16 anni, erano tutti più grandi di me, ero l’unico minorenne e già pensavo che comunque la musica avrebbe avuto un’importanza nel mio tempo. Poi questa cosa è cresciuta nel corso degli anni, finché a un certo punto ho incontrato quella cosa terribile che è il lavoro. Con il mio vecchio gruppo, gli Archinuè, abbiamo fatto Sanremo. Però dopo due anni ho avuto la necessità di cercare un lavoro perché le entrate non erano sufficienti per campare. Ho lasciato un curriculum ad una libreria e in questa libreria ho lavorato per 13 anni. Sono riuscito a far convivere la musica e quel lavoro solo per i primi tempi, poi ho smesso perché non riuscivo.
Per sette anni non ho cercato strumenti finché non ho incontrato te e ho ripreso a suonare. La cosa è cresciuta, abbiamo conosciuto Valeria Grasso e abbiamo fondato Giringiro. Nel frattempo la libreria in cui lavoravo ha fatto tagli al personale e io sono stato tagliato. Per me è stato un regalo, nel senso che non vivevo bene in quel modo e ho deciso che da quel momento avrei dedicato molto tempo alla musica e di non ricadere nel lavoro per 40 ore settimanali che ti dà un sacco di garanzie e certezze, ma ti toglie un sacco di tempo. Vivo di musica e per arrotondare faccio pure altre cose. Ovviamente ci sono delle rinunce, nel senso che non è una certezza economica assoluta. Quando ero un impiegato a tempo indeterminato mi facevo le ferie fuori, avevo le abitudini e le garanzie tipiche del lavoro fisso.
Adesso non fai ferie né viaggi?
Diciamo che i viaggi coincidono con l’attività musicale che ogni tanto mi porta anche fuori. Però non faccio un viaggio all’estero di villeggetura da molto tempo.
Forse il musicista è un po’ nomade. È stressante? Chi paga?
Suonare unisce lavoro e passione, quindi non lo trovo stressante. Recentemente mi sono dedicato all’etnomusicologia e ho viaggiato all’estero con il gruppo Casentuli. Questi viaggi, pur con limitazioni, permettono di scoprire aspetti culturali che un turista normalmente non coglie. Abbiamo incontrato musicisti e colleghi in altri paesi, un’esperienza arricchente.
Generalmente sono festival finanziati da Enti e bandi europei. Quella è la miniera, soprattutto per chi opera nel settore etnomusicologico e antropologico. I bandi sono benedizioni perché ti permettono di proporre il tuo lavoro all’estero o di portarlo nelle scuole.
Parliamo di contratti.
La cosa più frequente è la prestazione occasionale. È difficile creare un rapporto di lavoro dipendente, a meno che non si lavori fondazioni o enti specifici. Di solito si tratta attività che durano due giorni al massimo. Alla previdenza invece ho smesso di pensarci un sacco di tempo fa. Non penso che la nostra generazione avrà una pensione, non penso che l’avrà chi ogni tanto versa briciole di contributi. Quello è un altro discorso che si vedrà.
In caso di malattia?
Vai a lavorare a suonare, che domanda! È una follia del settore. C’è una sorta di orgoglio in queste cose che è pericolosissimo. Diciamo che suoniamo e sostanzialmente le malattie e le ferie retribuite ce le possiamo anche scordare.
Pensi che le istituzioni capiscano il problema?
Non penso che il Governo abbia un tavolo aperto in cui affronta problema. Ripeto, io ho la fortuna di lavorare molto in ambito etnomusicologico e questa cosa apre dei canali che un ragazzo che scrive canzoni non ha. Quindi ci sono un milione di situazioni, tutte diverse tra loro, ma ripeto, non penso che il Governo Meloni stia parlando di questo in questo momento. E vabbè, nemmeno quelli passati, figurati. Questo forse però è un po’ il destino dei mestieri di arte. Forse da un lato è la cosa che garantisce margini di libertà. Non lo so, i giullari non possono essere impiegati statali.
Qual è il tuo rapporto di musicista col potere?
Io odio padroni, ma adoro maestri.
In questa risposta c’è tutto il Pasqualino che conosco. Grazie, questa intervista possiamo concluderla così.